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23 settembre 2021
6 febbraio 2022
Insieme a Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau è considerato uno dei padri fondatori della fotografia umanista francese e del fotogiornalismo di strada. Con il suo obiettivo cattura la vita quotidiana degli uomini e delle donne che popolano Parigi e la sua banlieue, con tutte le emozioni dei gesti e delle situazioni in cui sono impegnati. In 11 sezioni, la mostra combina la cronologia di Doisneau con un approccio tematico, raccontando la storia di oltre 130 stampe ai sali d’argento in bianco e nero provenienti dalla collezione dell’Atelier Robert Doisneau a Montrouge. È in questo luogo che il fotografo stampò e archiviò le sue immagini per oltre cinquant’anni, lasciando un’eredità di quasi 450.000 negativi.
Les frères, rue du Docteur Lecène, Paris 1934
Robert Doisneau (Gentilly, 14 aprile 1912 – Parigi, 1º aprile 1994) ha saputo raccontare con empatia la società parigina del Novecento captando momenti di grazia ed espressioni di felicità. Artista o fotoreporter, Doisneau ci ha lasciato immagini che riescono a strapparci un sorriso e, allo stesso tempo, a stringerci il cuore. Perché il suo approccio all’umanità era ben più complesso della semplice leggerezza che si tende ad associare alle sue immagini. «In realtà», diceva, «la mia vera passione è la pesca; la fotografia è solo un hobby». Il passatempo di uno dei più grandi fotografi del XX secolo.
Tutte le immagini presenti sono protette da copyright © Robert Doisneau
Cafè noir et blanc, 1948
Periferie in cui si muove un’umanità periferica di cui Doisneau, con empatia, ha mostrato la miseria, l’inquietudine, la malinconia, riuscendo però a captarne i momenti di grazia, di felicità, i sorrisi di un istante.
A carpire, insomma, l’essenza ambigua della vita stessa, il suo essere insieme ombra e luce.
Comtesse Gaëlle et Monsieur Pedro, 1950
Le commissioni lo mettevano a disagio, lo obbligavano a uscire dal guscio: era un sedentario che detestava allontanarsi dalla “sua periferia”. «Ho sprecato molte energie» confesserà parlando di quei lavori. Si può quindi immaginare con che spirito, su richiesta di Vogue, nel 1951 lasciò Parigi per andare fino all’Hôtel de Paris di Biarritz, a una cena di gala a cui partecipavano anche i due protagonisti che danno il titolo a questa foto.
Prise de vues publicitaire Renault, 1935
Tra il 1934 e il 1939 lavorò alla Renault: cinque anni molto formativi, durante i quali realizzò vari scatti pubblicitari che gli insegnarono a padroneggiare la tecnica e a curare ogni dettaglio, perché nulla, in quelle foto, era lasciato al caso.
Fu però un altro il motivo per cui Doisneau ritenne importante quell’esperienza: la Renault gli chiese anche di documentare l’attività delle officine di Boulogne-Billancourt, e fu allora che Doisneau scoprì la realtà della condizione operaia, alla quale si sarebbe sempre sentito vicino.
Mademoiselle Anita, 1951
La scelta della distanza è determinante nella composizione di una foto. Lasciare un vuoto ai bordi dell’inquadratura era, infatti, una consuetudine per i fotografi della sua generazione, e lo stesso Doisneau fece ricorso al ritaglio per eliminare dettagli periferici che gli sembravano superflui. In questa foto, ad esempio, il dettaglio ritenuto superfluo era se stesso: grazie a un gioco di specchi, infatti, il fotografo si vede non una ma due volte.
Les FFI de Ménilmontant, 1944
Il passeggiatore, con la sua macchina fotografica, fu notato da un gruppo di partigiani freschi di vittoria: «Ce la fai una foto?». Doisneau aveva con sé solo due rullini: un ritratto di gruppo era l’ultima cosa che aveva voglia di fare. Ma come poteva rifiutarsi?
E l’ironia? L’ironia della sorte è che Doisneau ha confessato che proprio questa foto, che non aveva nessuna intenzione di fare, in realtà era la migliore che avesse mai scattato.
Promenade dominicale, 1934
Doisneau era sì empatico, ma anche timido, un ostacolo per un fotografo. Risolse il conflitto trovando la giusta distanza tra sé e i soggetti che fotografava, senza mai avvicinarsi troppo ai volti.
In questo la Rolleiflex lo aiutava, permettendogli di fotografare senza tenere l’apparecchio all’altezza degli occhi, così il soggetto non si rendeva conto di essere fotografato. «E tuttavia avevo la sensazione di vedere molto bene le persone. Allora mi sono lanciato, all’epoca il pubblico non si rifiutava».
Le Fox Terrier du Pont des Arts, 1953
Nella storia che non si vede c’è un grande fotografo, bravissimo non solo a cogliere l’attimo, ma anche a inventarselo. A differenza dei prestigiatori, però, a Doisneau piaceva svelare i suoi trucchi: «Questa è una foto completamente costruita», ha raccontato.
«Eravamo un bel gruppetto in un caffè di rue de Seine, tutti un po’ brilli; con noi c’era una ragazza che il compagno pittore voleva ritrarre sul Pont des Arts. Io gli ho suggerito di dipingerla nuda, per vedere come avrebbe reagito la gente».
L’Enfer, 1952
Ed ecco che una battuta si rivela verità sul fotografare, che lui definiva «disciplina dell’attesa». Attendere, anche a lungo, in modo da trovarsi nel posto giusto al momento giusto per cogliere l’attimo con l’amo dell’obiettivo.
Esattamente quello che accadde con la foto che vedete qui: Doisneau la scattò a Parigi, in Boulevard de Clichy, nel 1952, usando come esca il grottesco ingresso de L’Enfer, «un cabaret dove i borghesi venivano a cercare il brivido del proibito». Lui, invece, ci andava per gettare l’amo.